Gli “statuti” del castello di Leinì (1387-1388)

Ossia una convenzione tra i consignori Provana di Leinì.

di Samuele Mamola

Può succedere che archivi fin’ora pressoché sconosciuti conservino documenti di non poco conto e di notevole interesse: è il caso dell’archivio dei baroni Guidobono – Cavalchini che, discendenti dei Provana, conservano nell’omonimo castello di Collegno diverse carte dei Provana dei rami di Leinì, Collegno e Druento.
Il documento in questione fa parte di un piccolo plico di documenti in copia di XVIII secolo, da originali del 1387-1388, da cui si comprende come si arrivò alla stipula di questa convenzione.
Questi documenti conservati a Collegno sono tradotti in italiano, con una versione della parte relativa la convenzione “riassunta”, mentre, una copia sempre settecentesca e in latino, più complessa e che riporta quella che pare una versione integrale della convenzione, è conservata nell’archivio Provana di Leinì alle sezioni Riunite dell’Archivio di Stato di Torino.
Non si è, tuttavia, i primi ad aver individuato questo documento, ma si è i primi ad averne parlato e pubblicato in maniera integrale la convenzione: un originale Trecentesco, era infatti conservato nell’Archivio Storico Comunale di Leinì e Gabotto lo vide, ma ne trascrisse solo le righe iniziali nel 1846; questi documenti risultano ad oggi tra i quattro mancanti nel mazzo da lui indicato (l’archivio non fu riordinato, e infatti oggi quanto vide Gabotto risulterebbe nei medesimi mazzi). Dal Gabotto sappiamo che nel plico di documenti originali dell’epoca erano presenti le carte trovate in copia nell’Archivio Guidobono-Cavalchini ma, a queste, erano anche legate due lettere di Ibleto di Challant di inizio Quattrocento indirizzate ai consignori Provana di Leinì e che Gabotto trascrisse.
Dopo questa introduzione, necessaria a spiegare la provenienza di questi documenti, possiamo parlare del contesto in cui venne stipulata questa convenzione.
Nel 1387 il conte di Savoia permuta, probabilmente per motivi economici, con i fratelli consignori di Leinì Arasmino e Giacomo Provana una terra situata in Tarantasia per metà del castello di Leinì di cui, nel dicembre del medesimo anno, con il consenso dei già citati consignori e dietro pagamento, un quarto è concesso in investitura dal conte a Giacotto e suo figlio Saladino Provana. L’altro quarto è restituito con investitura ai già consignori Arasmino e Giacomo Provana. L’altra metà del castello era invece di Lionello e Giovannello Provana.
La situazione che quindi si aveva a Leinì era la seguente: Leonello, Giovannello, Giacomo e Arasmino Provana sono consignori della loro parte di castello e del territorio di Leinì (come si evince dall’investitura del 1380); Giacotto e Saladino invece sono consignori solamente del loro quarto di castello. Vi è quindi la consignoria sul castello leinicese di sei membri della famiglia Provana.
I Provana avevano possedimenti sparsi per il Piemonte (torinese, cuneese settentrionale) e oltralpe (Savoia), pertanto si viene a creare una situazione che, in gergo tecnico, è definibile come consortile. Per governare quindi dei possedimenti talvolta lontani tra loro, in alcune località si decide di designarne l’amministrazione a uomini di fiducia: è il caso di Leinì.
Nel gennaio 1388, essendo sei consignori, evidentemente non tutti stabilmente presenti sul territorio, per l’amministrazione del castello e di alcuni aspetti giuridici sulla popolazione sottoscrivono una convenzione.
Questo documento si compone di 13 articoli che regolano eventuali attriti tra i consignori, per l’elezione del castellano – podestà (colui cui viene affidata l’amministrazione di castello e aspetti giuridici sulla popolazione), sul fatto di non intromettersi nella giustizia demandata al castellano – podestà, sul rifornimento del castello di vettovaglie, i quali costi erano divisi tra i consignori.
Su alcuni articoli invece occorre prestare più attenzione: nel V articolo, si legge che se i consignori non fossero stati tra loro concordi, non potevano far entrare o far lavorare nel castello nessuna persona proveniente da Leinì, ma solamente sudditi del conte di Savoia che custodissero il castello in tempo di guerra e pace.
Così com’è interessante il X articolo: qui regola il fatto che la postierla (porta pedonale di accesso al castello, generalmente di fianco alla porta grande), rimanga di uso comune ai consignori, che non ne possa essere costruita una ulteriore e che per la postierla vengano prodotte quattro serrature con quattro chiavi, tutte diverse tra loro, cosicché i consignori la possano aprire solo se tutti presenti. Vengono poi ordinate aperture di porte in altre sale del castello (oggi non identificabili) per rendere più agevole il passaggio dal castello all’area della postierla.
Regolamentano poi le norme relative la magna porta, la porta grande del castello, per la quale ogni consignore aveva una chiave. Queste erano, in tempo di guerra, tutte conservate dal castellano per motivi di sicurezza (ossia possibili tradimenti).
È stato possibile identificare la posizione sia della postierla che della magna porta dalle rappresentazioni del castello nelle pale d’altare alla Madonnina e a San Rocco, nonché da un importante tipo (una mappa) rilevante le fortificazioni di Leinì nel 1719: si trovavano di fronte la torre, ricavate nelle mura abbattute, purtroppo, negli anni ’70 dell’800 dopo il passaggio di proprietà del castello dal signor Spirito Aubert al Comune di Leinì che lo acquista nel 1871 (come si evince dall’atto originale in Archivio comunale; le demolizioni sono riscontrabili nelle delibere del Consiglio comunale di quegli anni e dai preventivi richiesti a professionisti, nonché dalle relazioni dei lavori).

Il castello nella pala d’altare del Santuario della Madonna delle Grazie

Correda queste convenzioni un ulteriore documento stipulato nel medesimo periodo, ossia le disposizioni che vengono date al castellano – podestà relativamente a degli aspetti finanziari.
Doveva infatti pagare 44 fiorini d’oro di piccolo peso ai consignori, i proventi erano ricavati dall’esercizio della podestaria; erano da pagare poi 20 fiorini d’oro di piccolo peso al portinaio del castello e 20 fiorini d’oro di piccolo peso al custode della torre; questi due venivano pagati in due rate: una prima per la festa di San Giovanni Battista, una seconda per la festa di San Tommaso Apostolo. Il rimanente denaro eventualmente ricavato andava sempre consegnato ai consignori.
Il podestà parrebbe rimanesse in carica un anno e, successivamente a quello presente, tale Antonio Boniforte, erano designati già i sette successivi, sempre parenti dei consignori o un consignore stesso: Damiano Provana, Giovannello Provana, Tommaso Provana, un certo Matteo (forse figlio di Leonello), Giacomo Provana, Gioannello Provana, Saladino figlio di Giacotto Provana.
Sugli anni successivi, al momento, non si sa nulla relativamente a tale carica, ma è vero anche che dal 1391 gli equilibri tra la popolazione e i consignori sembrano mutare a favore del ritorno delle Istituzioni Comunali, già presenti alla fine del XIII secolo.
Queste convenzioni, che ho chiamato “statuti” riprendendo la parola dall’articolo XIII, sono un documento molto interessante che, in questa sede, non è stato possibile approfondire molto; si rimanda pertanto alla pubblicazione in Studi Chivassesi 14 (2023), Chivasso.

1291. Assedio o scorreria?

di Samuele Mamola

Secondo una tradizione storica lunga circa due secoli, la località di Tulfo e il relativo “tempietto” di San Cristoforo, sarebbero stati distrutti intorno alla fine del Duecento da qualche evento bellico.
Paviolo parla di un episodio bellico che ha coinvolto Leinì avvenuto nel 1291, Olivero cita l’episodio della distruzione di Tulfo mettendolo, apparentemente, in relazione con quello del 1291 citato dal precedente. Gli autori sembra abbiano attinto le loro informazioni relative l’evento del 1291 dallo studio di Luigi Cibrario inerente le istituzioni della monarchia sabauda.
Se non si può quindi confermare o smentire un possibile collegamento tra i due episodi, lo scrivente è riuscito ad appurare che almeno l’episodio del 1291 è effettivamente accaduto.
Ma prima di parlarne è opportuno fare un breve cenno al quadro storico regionale del periodo, cercando di motivare il perché di un evento militare in questa zona.
Dagli anni ’70 del Duecento, tra il nuovo conte di Savoia Amedeo V e il Delfino di Francia cominciano a nascere tensioni relative il controllo di alcune aree dell’attuale Svizzera circostanti Vaud e Ginevra. Ne sorgono scontri, salvo arrivare ad una debole pace nel 1287 che, per l’appunto, durò molto poco, tant’è che nel 1289 ripresero i dissidi tra le due parti.
Tuttavia le tensioni si allargarono fino al torinese. Amedeo V fu infatti costretto a scendere in Piemonte per provare ad arginare le mire espansionistiche del marchese di Monferrato. Nello stesso anno, il conte, strinse infatti una lega con il Comune di Asti contro il marchese monferrino e, successivamente, nel settembre del 1290, Amedeo V assedia l’avamposto marchionale di Pianezza, strappandolo al controllo monferrino.
In questo quadro, qui molto semplificato, si colloca la serie di eventi che coinvolsero vari centri abitati monferrini nei pressi di Leinì, i quali erano posti al limite con la zona, tendenzialmente dalla Stura di Lanzo in direzione sud, controllata dai Savoia.
Amedeo V, probabilmente per infastidire il marchese di Monferrato o per dare una prova di forza, avrebbe quindi incaricato, nel 1291, il vicario di Piemonte Amedeo di Conflans, castellano di Carignano tra il 1291 e il 1294, di perpetrare un’azione militare a danno di Fiano, Caselle, Ciriè, Leinì e una, non meglio specificata, zona del Canavese vicino Chivasso.
Dai dati reperibili nel conto di castellania del 1291, riusciamo a rilevare lo spostamento degli uomini capeggiati dal Conflans: partono da Carignano, si spostano a Rivoli (centro abitato sabaudo) e da lì muovono per offendere Fiano, scendono a Caselle e da qui sembrano diramarsi. Infatti un gruppo guidato dal Conflas stesso si muove ad offendere Leinì, per spostarsi poi in direzione di Chivasso e Canavese, un altro gruppo invece compie un altro tipo di offesa, ossia una cavalcata, contro Ciriè.
Leinì, Caselle e Fiano, sono state offese da uomini armati a piedi. Nel conto è specificato che Leinì fu attaccato da “molti uomini armati guidati dal vicario di Piemonte”, Fiano e Caselle fuono invece attaccate da “quattordici uomini armati”; Ciriè subì invece una cavalcata da “dodici uomini armati” a cavallo.
I dati reperiti nel conto di castellania di Carignano del 1291, ci permettono di inquadrare in maniera certa questo evento in una precisa tipologia di azione militare: la scorreria.
Nel caso di Fiano, Caselle e Leinì, questa fu compiuta da uomini a piedi, a Ciriè agirono invece uomini a cavallo.
Durante queste tipologie di eventi militari, ciò che avveniva era il dannegiamento di tutto ciò che si trovava al di fuori delle eventuali fortificazioni (inquadrabili in un castello, un ricetto, una cinta muraria). Si danneggiavano, quindi, campi, raccolti, alberi, cascine o case che si trovavano indifese, ossia tutto ciò che generalmente serviva alla popolazione del luogo e il cui danneggiamento si ripercuoteva anche sul marchese di Monferrato, a cui la popolazione dei luoghi, probabilmente, avrebbe potuto, dopo quel momento, appellarsi.
La tipologia di eventi militari che possiamo trovare in epoca medievale è varia e tutti hanno delle caratteristiche peculiari. In questo caso abbiamo di fronte una tipologia di episodio che nelle fonti è difficile da trovare, infatti generalmente si trovano notizie sporadiche di questi eventi; nel nostro caso siamo davanti a un caso fortuito con un’ottima qualità e discreta quantità di dati.
Infatti, oltre il numero degli uomini e le località esatte che sono state attaccate, possiamo leggere il costo della scorreria per ciascun luogo: Leinì costò 6 libbre (o lire), 2 soldi e 7 denari viennensi (denari di Vienne, in Francia); Caselle e Fiano costarono 6 libbre e 13 soldi; la cavalcata su Ciriè fu più costosa per via dell’ausilio degli animali, 23 libbre, 8 soldi e 19 denari viennensi.
Se paragoniamo il costo della scorreria su Leinì con quella su Caselle e Fiano, capiamo anche che su Leinì si mossero meno uomini che sugli altri due luoghi, probabilmente dodici invece che quattordici.
Sembrano pochi i componenti dei gruppi di armati che attaccarono questi luoghi, ma dobbiamo considerare che, al contrario di quanto il cinema ci propina talvolta, luoghi come Leinì, Caselle e Fiano, avevano sì un castello, ma gli armati a disposizione potevano attestarsi al massimo intorno agli 8/10, mentre la popolazione locale difficilmente si sarebbe messa di traverso a uomini armati, quanto piuttosto cercava rifugio nel castello o nel ricetto (se c’era).
Le dinamiche che caratterizzano questi eventi sono di estremo interesse, ma non vi è qui la possibilità di analizzarle. Rinvio a tal proposito, seppure non specifico del caso locale, alla lettura di “Rapine, assedi, battaglie (…)” e a “L’illusione della sicurezza (…)” del Professor Aldo A. Settìa, uno dei maggiori esperti in Italia ed Europa, sul tema.
Lo studio completo dell’episodio, più articolato e approfondito sotto alcuni aspetti, è in Studi Chivassesi 13, 2022, a cura della Società Storica Chivassese.

Sulle origini di Leinì

di Samuele Mamola

Quando si parla della storia di Leinì, ci si ricorda sempre del libro dell’ex parroco don Olivero che, con intento nobile, ha fatto un tentativo di redazione della storia del nostro paese. La storia di Leinì tuttavia è molto più complessa e affascinante. In questo articolo si indaga, con l’ausilio del metodo storico – scientifico, la parte di storia di Leinì dalle primissime attestazioni scritte. Ci si propone, in questo articolo, di partire da due toponimi del X e XI secolo, i più antichi a noi giunti, attraverso i quali si scenderà più dettagliatamente nel discorso prettamente storico inerente Leinì e, in particolare, quello inerente la sua antica Pieve e l’importante e fondamentale attestazione documentaria del 1047, oltre alla collocazione politica dal X secolo.
Nello studio si parte quindi dalla più antica attestazione che conosciamo e che identificherebbe Leinì: Leudenigo. Questo toponimo, risalente al 904, lo si ritrova all’interno di un documento notarile di permuta stipulato a Ciriè tra l’abate del monastero di Brione e l’arcidiacono di Torino Teudone. Qui il toponimo compare come identificativo di provenienza di uno dei Testes (i testimoni di questi atti), tale Bertefredo de Leudenigo, quindi un uomo che probabilmente veniva dal luogo di Leinì. Il condizionale è d’obbligo quando si parla di documentazione di più di mille anni fa; vi è infatti una percentuale di probabilità molto alta che si tratti effettivamente di un toponimo riconducibile a Leinì ma, tuttavia, è opportuno ricordare che non c’è attualmente ancora totale certezza su tale corrispondenza.
Attestazioni successive comprese tra il 904 e il 1047, al momento non ve ne sono. È importante però fare chiarezza su un toponimo che alcuni autori dicono di aver trovato in documenti del 951, 999 e 1014. Il toponimo Vualda Lainiaci che molte volte abbiamo sentito nominare o letto, da un’accurata lettura dei documenti citati da precedenti autori, risulta non essere riscontrabile, pertanto mai esistito e ciò lo si dimostra in modo accurato nello studio allegato. Nelle carte, spesso citate da vari autori, non si riscontra mai il toponimo Vualda Lainiaci ma solamente un generico Vualda nel 999. Mentre il documento del 1014 riporta il toponimo Vualda Vulpiani: in questo caso corrisponde a una effettiva specificazione di una zona della Vauda situata nel luogo di Volpiano, ma non meglio circoscrivibile.
Proseguendo quindi in linea cronologica, troviamo, nel 1047, in un diploma imperiale di Enrico III con cui conferma dei beni al Capitolo Cattedrale di Torino, la seconda e in assoluto più importante attestazione di un toponimo riferibile a Leinì: Ledenico. Ma quanto risulta dalla lettura del diploma, e in particolare dalla sezione che cita questo toponimo, sono ben altre notizie con altre implicazioni; si riscontra infatti la frase «[…] Plebem in Ledenico cum mansis quinque et medietate decime eiusdem ville […]». Dalla frase si colgono una serie di elementi di enorme interesse: in primo luogo leggiamo che a Leinì vi era in quest’epoca una Pieve, ente ecclesiastico di fondazione vescovile ma che, come deducibile dal contesto del documento, era un bene del Capitolo Cattedrale torinese, un organo che nasce all’interno delle sedi vescovili durante l’XI secolo, in un’ottica di rafforzamento del controllo dell’azione locale dei vescovi, e composto dai canonici dell’alto prelato. La pieve si legge essere sita in Ledenico, toponimo appunto identificante il luogo di Leinì, e possedeva cinque mansi di terra, mansis quinque, in genere dei terreni agricoli. La pieve riceveva poi le decime dalla villa, ovvero un villaggio stabilmente abitato, e metà di queste decime le pagava al Capitolo Cattedrale torinese. Da qui abbiamo la certezza che nel 1047 vi era un centro abitato a vocazione agricola di piccole dimensioni; questo era in grado di pagare delle decime (una tassa ecclesiastica) delle quali non sappiamo l’ammontare; si può solo supporre che la decima consistesse in prodotti agricoli, difficile si possa parlare di denaro, che in quest’epoca era ancora a bassa circolazione. Difficile dire a chi fosse intitolata la Pieve, (almeno fino al XIV secolo) così come complesso è stato anche cercare di circoscriverne la posizione e, per questi dettagli, la spiegazione nello studio è molto chiara.
Le pievi erano enti ecclesiastici particolarmente importanti; la loro esistenza è attestata già dal VI secolo. Esse, semplificando, sono le chiese che precedono le parrocchie e avevano il compito di elargire il battesimo ai fedeli; non erano poi chiese presenti in tutte le località seppure, nell’area del Basso Canavese e Ciriacese, risultassero alquanto numerose. Il fatto che a Leinì sorgesse una Pieve denota il fatto che il luogo avesse un qualche tipo di rilevanza che, tuttavia, in questa sede è ancora difficile da definire con chiarezza, ma che si può supporre potesse essere relativa alla rete viaria e/o al cercare di rendere stabile il controllo del vescovo di Torino sulla zona. Proprio il controllo vescovile e i successivi sviluppi del XII secolo sono, tuttavia, parti della storia leinicese ancora in fase di studio e che, a loro volta, aprono a sviluppi ancora più affascinanti: guerre, rivolte, signoria e una forte comunità saranno le caratteristiche della storia di Leinì tra XII e XV secolo.

Lo studio storico completo è stato pubblicato in Studi Chivassesi 12, a cura della Società Storica Chivassese, anno 2022. Il testo è a disposizione su richiesta a posta@labarbacana.it.

Il primo miracolato di Leinì

di Christian Chiatello e Toni Balbo

Credevamo che il sordomuto della famiglia Regina fosse il solo miracolato di Leinì, invece è stato preceduto da un altro leinicese, Gioanni il muto, che ha riaquistato la parola grazie alle preghiere rivolte alla Madonna delle Grazie di Mondovì nella chiesa presso Vico(forte).
Il fatto è stato trovato in rete da Christian, in un libretto che celebra la “Storia della SS.ma Vergine del Mondovì presso Vico”.
Il libretto è datato 1798 e riporta alcuni miracoli attribuiti alla Vergine, uno dei quali, quello che riguarda il leinicese, è stato compiuto quando era arcivescovo di Torino Carlo Broglia cioè fra il 1592 e il 1617.

Il frontespizio del libretto
L’immagine della Madonna di Mondovì

Questo il testo che descrive il miracolo:
Gioanni Ruscato di Chivasso perduta avea né suoi più freschi anni intieramente la parola per certo maligno tumore nella di lui gola formatosi, ed era da tutti comunemente chiamato col soprannome di Gioanni il muto. Ora siccome fissata avea sua abitazione in Leynì, così nel portarsi che fecero i Disciplinanti di questo luogo (congregazione simile ai flagellanti o ai battuti) a visitare il Santuario (di Mondovì), ottenne anch’egli di essere annoverato fra lo stuolo di qué divoti confratelli. Con tale raccoglimento di spirito compisce Gioanni la lunga penosa strada (circa 110 km.), e con tanta confidenza implora la sovrana protezione della Regina dé Cieli, che, terminata appena nel Santuario la sua preghiera, nell’atto appunto, che stava per congedarsi da Maria, e per restituirsi al suo destino, cominciò improvvisamente ad articolar parole, e quindi a poco a poco andò ricuperando con somma sua, ed universale sorpresa la perduta loquela. Pubblica, ed inconcussa si è la prova, che diede lo stesso Gioanni del sovraumano prodigio, allorquando essendosi dovuta leggere la tavoletta dei confratelli di Leynì venuti al Santuario, e pronunziato essendosi il suo nome, come stava scritto, cioè Gioanni il muto, si mise egli a gridare con alta, e distinta voce: Non più Gioanni il muto, ma Gioanni Ruscato, che tale è il mio cognome, nè sono più muto per grazia del Signore, e della gloriosa Vergine.
Tornati che furono a Leinì, “Depose con suo giuramento il fatto lo stesso Gioanni, e lo autenticarono eziandio il nobile Petrino Fantino Sindaco di Leynì, Gioanni Bisco, e Gaspare Albissano Consiglieri di questo luogo, i quali testificarono d’aver più volte trattato Gioanni prima del suo viaggio al Santuario, e di essere intieramente informati della miracolosa sua guarigione. Tutto ciò minutamente descrivesi né processi pag. 554 e 555, siccome altresì sappiamo dai medesimi, che fu Messer Bernardo della Valle di Cinzano colui, al quale toccò di leggere pubblicamente la tavoletta, che contenea descritto il nome dei confratelli di Leynì venuti processionalmente al Tempio. Il Senator Roffreddo dopo d’aver riferiti questi miracoli soggiunge: Hæc mihi Caroli Broglia Taurini Archiepiscopi auctoritate uti verissima, probatissimaque remissa”.
(Mi servo dell’autorità dell’arcivescovo Carlo Broglia di Torino per usare queste parole nel modo più vero, rispettato e perdonato).
Apprendiamo da questo testo che i pellegrini in visita al Santuario venivano registrati su una “tavoletta” che veniva poi letta in pubblico.
Proseguendo nella lettura, lo stesso autore, canonico teologo Vincenzo Rossi, argomenta sulla autenticità dei miracoli: “Prego per altro i miei leggitori di voler riflettere alla differenza, con cui io parlo dei miracoli, che ricavai dai processi (verbali), muniti di tutti gli argomenti di credibilità, e degli altri, che trascrivo talora da particolari Autori. I primi io li do per certi; ma riguardo ai secondi, sebbene non abbia motivo di dubitare sulla loro veracità, mi rapporto, e mi rimetto sempre all’autorità, ed alla fede di chi li racconta”.

Il romitaggio di Leinì

di Christian Chiatello e Toni Balbo

Trovato all’archivio arcivescovile di Torino un documento del 1691 che illustra un passaggio significativo riguardante la gestione del Santuario della Madonna delle Grazie: la nostra venerata Madonnina.
Era il periodo in cui il generale francese Catinat stava devastando diverse città a sud di Torino nel quasi perenne conflitto fra i francesi ed i Savoia.
Invece nella tranquilla Leinì, si fa per dire, si era alle prese con la gestione del Santuario, che era stato abbandonato dall’ultimo custode e si doveva decidere cosa fare.
Informato l’arcivescovo di Torino Mons. Michele Antonio Vibò della situazione, esso scrive una missiva al parroco di Leinì, Priore Pietro Francesco Scarrone dove, rimarcando le circostanze, impartisce le regole da osservarsi nella nomina di un altro custode.
La situazione era questa: il Santuario rivestiva la condizione di “romitaggio”, luogo solitario che aveva la caratteristica di avere dei locali, oltre alla cappella, per ospitare un custode “romito” (eremita) e dei pellegrini. Ancora nel catasto francese di inizio 1800 le navate laterali erano censite come abitazioni.

La Madonnina nel catasto francese

Il Comune, proprietario del luogo, aveva nominato a custodia un “romito layco tedesco” che però aveva abbandonato il Santuario “sin dal principio di maggio delli anni mille seicento novant’uno” senza preavviso. Il Comune nomina allora un leinicese, tale Malanitto, in sua sostituzione, questi si rivela però un “idiota et indisposto” inadatto a ricoprire tale incarico. A questo punto il Parroco si era rivolto all’Arcivescovo.

Per “conservare et ampliare la devozione a quel Santo luogo”, l’Arcivescovo impartisce i seguenti Capitoli:
1° – Che sia espressamente proibito alla Comunità di Leynì di nominare un romito alla predetta Cappella della Madonna delle Grazie, qualsiasi Sacerdote, ma solo che possa nominare un romito secolare layco, come sono stati tutti gli altri addietro, che però sia di costumi religiosi per condurre vita romitea laycale conforme ai riti di Santa Madre Chiesa, abile e capace di servire alla Chiesa e con espressa autorizzazione per questo aspetto, dell’approvazione di Monsignor Ill.mo Arcivescovo e del consenso del Sig. Prevosto;
2° – Che detto romito debba servire annualmente a detta cappella come pure alla Chiesa Parrocchiale del suddetto luogo in tutte le feste di precetto;
3° – Che detto romito non permetta ad alcun religioso forestiero, tanto secolare che regolare, di celebrare la Santa Messa in detta cappella, nemmeno ad alcun altro religioso, eziandio (altresì) del luogo stesso, di somministrare Sacramenti né d’esercitare funzioni, senza l’espressa licenza del Sig. Prevosto o del suo Vice in caso di sua assenza;
4° – Che sia proibito a detto romito d’uscire nottetempo dal romitorio e di rifugiarvi nello stesso persona di qualsivoglia sesso malviventi, banditi, assassini, ladri et altri criminali;
(N.d.AA.: in quel tempo vigeva il diritto d’asilo ecclesiastico, cioè chi si rifugiava in un edificio dedicato al culto non poteva essere perseguito).
5° – Che non possa, né debba il romito allontanarsi dal romitorio salvo nei giorni che gli sarà permesso, nemmeno dormir fuori d’esso, eccetto in caso di gran necessità che ritrovandosi a questuare (raccogliere offerte), gli fosse impedito dalla sopravvenienza della notte, cattivo tempo o consimile di ritonarsene al romitorio e che debba alla fine d’ogni anno fare il conto del suo maneggio al detto Parroco delle oblazioni et elemosine fatte alla cappella;
6° – Che il Sig. Prevosto debba avere il governo delle suppellettili sacre di detta cappella e, nei casi di assenza prolungata del romito, al romito che pro-tempore lo sostituisce bisognerà fare una descrizione, ossia inventario del tutto, per farne fede al suo Sig. Prelato;
7° – Che a detta Comunità di Leynì, Confraternita dei Disciplinanti, Compagnia, e a chiunque altro resti proibito d’introdurre nella cappella funzione pubblica et ivi portarsi processionalmente senza permesso e licenza espressa del Sig. Prevosto, né non ostante qualsivoglia pretesto in contrario.

Michael Antonius Vibò Dei et Ap(osto)licae sedis gratia Archiep(iscop)us Taurinensis
Michele Antonio Vibò per grazia di Dio e della Sede Apostolica Arcivescovo di Torino

Il catasto napoleonico a Leinì

di Toni Balbo

Con la seconda campagna d’Italia, Napoleone Bonaparte riconquistava il Piemonte che, dopo la battaglia di Marengo del 14 giugno 1800, diventava stabilmente sotto il controllo francese.
Iniziava allora una lenta ma continua equiparazione dei territori piemontesi al modello politico-amministrativo d’oltralpe. La formale annessione avveniva l’11 settembre 1802. Da tale data tutte le leggi emanate in Francia entravano in vigore anche in Piemonte, regione a cui fu attribuito il nome di Departements au delà des Alpes (Dipartimenti d’oltralpe).
Una delle prime riforme amministrative fu quella delle imposizioni fiscali attraverso la misurazione delle terre e la stima reale della loro potenzialità di reddito.
La rilevazione dei beni fondiari si configurava in un vero e proprio catasto particellare, tale cioè da descrivere ogni più piccola porzione di terreno appartenente ad un singolo proprietario.
La rilevazione avveniva con l’arpentage, misurazione delle superfici e loro rappresentazione grafica e con l’expertise ovvero alla valutazione dei redditi.
In Piemonte esisteva già la tradizione dei topografi e catastatori del regno di Sardegna e ciò assicurava un’alta qualità alle mappe rilevate.
Sul totale dei Comuni del Dipartimento del Po, area torinese, solo un terzo è stato oggetto della catastazione francese. Leinì è fra questi.
Abbiamo rilevato il “Plain lineaire de la Commune de Leynì” – carta che rappresenta l’intero territorio comunale, la sezione H – grande carta del concentrico, l’elenco per ordine alfabetico dei proprietari e, infine, delle proprietà per ordine di particella.

A titolo esemplificativo riporto alcune curiosità del concentrico.
Le principali proprietà del Comune erano: le chiese – l’area della parrocchia (chiesa, cimitero e abitazioni), San Giovanni, il Santuario e le cappelle di San Nicolao e San Rocco; le strade, le piazze e i ponti sulla Barbacana; il municipio, maison de la mairie, e l’ospedale, hopital des ammaladed. Purtroppo non è indicato il nome delle vie, forse non l’avevano.
Il municipio, dove si riunivano i comunisti (dizionarietto Ponza piemontese-italiano del 1834: comunista = consigliere del Comune) si trovava all’angolo fra le attuali via Carlo Alberto e piazza Vittorio Emanuele II.
L’ospedale, che funzionava sia come infermeria che come ricovero per i poveri vecchi, era situato nel fabbricato contiguo alla Chiesa di San Giovanni, dove ora è situata la farmacia che ha mantenuto il nome “dell’ospedale”.
L’area del castello Provana, torre compresa, era di D’Arbes La Tour Monsieur Louis – Colonnello del 181° Reggimento di linea – Ufficiale della Legion d’honneur. Il castello, in cattivo stato di conservazione, non era più proprietà dei Provana.
Il palazzo a ovest del castello era di Grosso Luise – femme Vincent – neé Franco de Guatta – demourant a Turin (Grosso Luisa – moglie di Vincenzo Grosso – nata Franco de Guatta – vive a Torino).
Il fabbricato dove attualmente risiedono gli uffici comunali (il Chiosso) era di Renaldi Giovanni Battista residente a Leynì.
A fianco, fino a via Carlo Alberto, la proprietà di Riccioglio Luigi fu Michele Antonio, avvocato, residente a Torino.
L’area dell’ex ospedale Capirone, via Carlo Alberto 173, era proprietà di Vachetta Jean Pierre detto Capirone, sacerdote residente a Leynì.

Attorno alla piazza nel 1810

Al termine dell’occupazione francese nel 1814, il restaurato ordine sabaudo, pur utilizzando ai fini dell’esazione dell’imposta le misure napoleoniche, rimaste incomplete, considera l’opportunità di impostare una nuova catastazione del territorio. Nel 1853 Cavour incaricò il geom. Antonio Rabbini di redigere un nuovo catasto che, seppur con successive variazioni, resiste ancora oggi.

Leynì nell’annuario del 1892

di Toni Balbo

Gli annuari sono delle pubblicazioni annuali (appunto) che riportano i dati riferiti ad un determinato argomento. Ci sono quelli delle professioni, delle imprese, statistiche, militari, sanitarie, ecc. Uno di quelli più famosi è la Guida Monaci. La tradizione degli annuari è abbastanza antica, sono nati probabilmente insieme ai dizionari nel diciottesimo secolo. Ho trovato in rete l’Annuario d’Italia del 1892 e riporto di seguito i dati riguardanti Leynì.

già edita a cura del Ministero dell’Interno e continuata dalla Società dell’Annuario Generale d’Italia
Proprietà letteraria della Società Anonima Editrice dell’Annuario Generale d’Italia

PARTE PRIMA

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LEYNÌ

Collegio elettorale di Ciriè. Diocesi di Torino. Abit. 4148. Dist. km. 4,93 da Caselle (Capol. mandam.) Superficie ettari 3260,45. Ad est di Caselle poco distante dal rivo-torrente Bendola.
Prodotti.Cereali, foraggi in gran quantità ed ortaggi eccellenti.
Industrie. Fabbricazione di tegole e mattoni. Allevamento del bestiame.
Uff. post.. Uff. telegr. e Staz. ferrov. a Caselle, linea Torino – Lanzo. Servizio di carrozze.
Fiere. Terzo lunedì di marzo, primo lunedì di settembre e quarto lunedì di ottobre.
Sindaco. N.N.
Segretario. Branco G.
Notaio. Baldioli Emilio.

Albergatori. Muzio Giovanni Domenico – Prato Carlo – Vigada Gio. Battista.
Basti (Fabbr.) Ferrero Francesco – Ronco Luigi.
Caffettieri. Alovisio Luigi – Ferrero Giovanni – Ronco Giuseppe.
Calderai. Ceresa Martino.
Calzature (Negoz.) Micliono Giuseppe – Ponsetto Giuseppe.
Cereali (Negoz.) Chiara Bernardo – Rufino Antonio.
Droghieri. Sinistro Pietro.
Fabbri. Ronco Antonio – Seletto Giovanni – Verderone fratelli.
Foraggi (Negoz.) Bonis cav. Vincenzo – Favero Giuseppe.
Laterizi (Fabbr.) Destefanis Antonio – Destefanis Bernardo e Giuseppe (sistema Hoffmann) – Destefanis Giovanni – Squillario fr.lli (sistema Hoffmann).
Liquoristi. Meinardi Agostino.
Merciai. Antoniotti Domenico – Caviglietto Simone.
Molini (Eserc.) Cravanzola Pietro.
Panettieri. Bertino Antonio – Bertino Rosa – Garbolino Giovanni – Serra Antonio.
Panierai. Depaoli Paolo.
Paste alimentari (Fabbr.) Depaoli Luigi.
Pizzicagnoli. Berardo Antonio – Ricchiardi Bartolomeo.
Segherie legnami idrauliche (Eserc.) Valerio fratelli.
Trattorie (Eserc.) Muzio Alessandro – Regaldo Francesca – Vana Caterina.
Vini (Negoz.) Bruni Vincenzo.
PROFESSIONI.
Farmacisti. Dusio Ulisse.
Geometra. Ronco Giuseppe.
Medici-Chirurghi. Vallino Filippo.

Sicuramente non sono indicate tutte le categorie e tutti i loro esercenti. Ad esempio a Leinì in quell’epoca c’erano almeno una quarantina fra alberghi, trattorie e “piole”, per cui si pensa che le inserzioni fossero volontarie e a pagamento gestite dai Concessionari internazionali Haasenstain & Vogler.

Nei confessionali della parrocchia di Leinì

di Toni Balbo

Su segnalazione di una nostra lettrice, riporto le trascrizioni di due documenti incollati nei confessionali della parrocchia di Leinì, datati 1856 e 1866. Si tratta delle norme che i fedeli dovevano osservare per la salvezza dell’anima, nel periodo a cavallo della formazione dell’unità d’Italia.
Il più antico riguarda le colpe che i fedeli dovevano rifuggire, è scritto in latino, ma abbastanza comprensibile, mentre il secondo è il risultato degli esercizi spirituali svoltosi nella parrocchia di Leinì in quel periodo.

CULPÆ RESERVATÆ IN DIOCESIS TAURINENSI
CLASSIS PRIMA
I. Homicidium voluntarium, quod quis sive per se, sive per alium perpetraverit.
II. Abortus foetus animati de industria procuratus, effectu secuto.
III. Incestus inter consanguineos in primo gradu.
IV. Sollicitatio ad turpia a sacerdote poenitentiae ministro peracta in actu, vel occasione, aut praetextu confessionis.
V. Depositio falsi in judicio in damnum tertii.
VI. Bonorum ad loca pia spectantium conversio in proprios usus ab administratoribus facta, si anno expleto integre non satisfecerint, vel si requisiti administrationis suae rationem non reddiderint.
VII. Piorum legatorum solutio diutius anno absque justa causa protracta, et culpa Notariorum, qui hujusmodi legata post tres menses a notitia obitus legantis non manifestant. Solutis autem, vel manifestatis legatis, reservatio cessat.
VIII. Templa, aut coetus haereticorum, etiam curiositatis tantum gratia, adeuntes quo tempore vel sermo ab üs habetur, vel sectae ritus celebrantur.

CLASSIS SECUNDA
I. Blasphemia contra Deum, aut Sanctissimam ejus Matrem, vel uno praesente, qui adverat prolata. Abusus sacrosanctae Eucharestiae, aut sacri Olei ad magicas artes, maleficia, aut superstitiones.
II. Suffocatio pueri anno expleto minoris in lecto, omissa adverenter cautione cunarum, aut alio firmo praesidio.
III. Incestus inter consanguineos in secundo gradu: inter affines in primo gradu.
IV. Pessima, et horrenda scelera bestialitatis, aut sodomiae tum active, tum passivae.
V. Prostitutio filiarum, sororum, aut uxorum.
VI. Percussio parentum, aut eis alimentorum denegatio.
VII. Baptismum post septimum diem infantibus dilatum culpa parentum.
Taurini, 1856 – Typ. Paravia et soc.

RICORDI DEI SANTI SPIRITUALI ESERCIZI
NELLA PARROCCHIA DI LEYNÌ – L’Anno 1866

MASSIME
1° Temi Iddio, ed osserva i suoi comandamenti, perché questa è la cosa essenziale dell’uomo.
2° Che mi giova guadagnare anche tutto il mondo, se perdo poi l’anima?
3° Il più gran male del mondo è il peccato, perché offesa di Dio.
4° Quattro giorni di vita e poi morire … roba, piacere, tutto sarà finito, e dell’anima mia che sarà?
5° Se morissi in peccato, che sarà di me?… In che stato si trova l’anima mia?
6° Riceverò nell’eternità, secondo che ho fatto nel tempo… Se vivo bene sarò contento sempre in Paradiso, se vivo male sarò disgraziato per sempre all’inferno.

PROPONIMENTI
1° Reciterò divotamente mattina e sera le mie orazioni. Se ricado in peccato ritornerò tosto a confessarmi.
2° Fuggirò i cattivi compagni, le persone pericolose, gli amoreggiamenti, i balli, le osterie, i luoghi tutti e gli oggetti che in passato mi furono causa di peccati.
3° Nei giorni di festa interverrò sempre alle sacre funzioni, e lascerò assolutamente ogni lavoro servile non giustificato da sufficiente motivo e da licenza del parroco.
4° Caccerò con prontezza tutte le tentazioni ed i pensieri cattivi.
5° Voglio perdonare le offese, sopportare le persone di casa, contenermi dalla collera, dalle mormorazioni, dai cattivi discorsi, e dalle bestemmie contro Cristo, il Sacramento e la Beata Vergine.
6° Propongo di essere fedele nelle promesse di non toccare mai la roba altrui, né recar danno, o ritenere roba non mia, od ingannare il prossimo.

Embrici a Leinì

di Toni Balbo

Mi sono state recapitate alcune immagini di frammenti di laterizi che, a prima vista, possono essere attribuiti a tegole (embrici) romane. C’è anche l’immagine di un peso da telaio, che indica come in quell’insediamento si praticasse la tessitura. Niente paura, tranquilli, sono ritrovamenti comuni e normali, nessuna pompei leinicese (per ora).
Nelle nostre zone siamo abituati a considerare le coperture dei tetti con le tegole a forma di coppo.
I romani, invece, facevano le coperture con gli embrici e i coppi come nell’immagine.

coppi piemontesi
embrici e coppi romani


Le due forme sono di origine molto antica, praticamente da quando si scoprì la cottura dell’argilla o terracotta e in molte zone vengono usate ancora oggi.
La seconda copertura era però una prerogativa della cultura romana che arrivò nelle nostre zone alcuni decenni prima di Cristo.
Ora, che siano state ritrovate delle tegole romane sul territorio di Leinì, indica senza alcun dubbio che i romani abitarono queste zone (come è stato descritto più volte dalla nostra Associazione).

impronta di cane
incastro dell’embrice
peso da telaio tessile

Abbiamo anche ricostruito in modo particolareggiato la centuriazione del nostro Comune.
Questo recente ritrovamento conferma ancora una volta quanto già evidenziato da numerosi studiosi nel passato, ma che stenta ancora ad avere una risonanza più estesa. Peccato.
Uno dei reperti riporta impressa l’orma di un cane: questo dimostra che gli embrici formati in argilla fresca venivano fatti essiccare al sole, per diversi giorni, appoggiati per terra e qui inesorabilmente qualche animale li calpestava. Quando i laterizi erano asciutti, venivano cotti in fornace alla temperatura di circa 800 – 1000 gradi C.
A Leinì ricordo come la fornace Miglietti – Parigi fosse in attività ancora negli anni 1950/60 ed era situata in via Vauda prima della cascina Telegro ai confini con il Comune di Lombardore.
Oggi ci sono ancora alcune “bose”, laghetti formatisi a seguito dell’asportazione dell’argilla (tèra gras-sa), a testimonianza di quell’attività industriale.
L’argilla veniva scavata, caricata sui carri ribaltabili (tombarél) trainati da cavalli e muli, scaricata in grossi mucchi, inumidita, caricata nell’impastatrice meccanica, per renderla omogenea, estrusa in forma rettangolare, tagliata a misura di mattone con un filo di ferro, caricati a mano su carriole dagli operai che andavano a riporli in stretti e lunghi capanni a tre piani, riparati dal sole da coperture di canne palustri e lì lasciati ad asciugare prima della cottura. Un lavoraccio! Ma non era finita. I mattoni venivano tutti i giorni rigirati per una asciugatura uniforme. Dopo diversi giorni i mattoni asciutti venivano ripresi e sempre con le carriole portati all’imbocco della fornace, posti sul nastro trasportatore di rete di ferro che li portava all’interno della fornace.
Io ero un bambino e me la ricordo ancora oggi quella fornace! L’inferno che i catechisti dicevano che esistesse, io me l’immaginavo proprio così come vedevo la fornace: una grande cupola fatta di mattoni rossi di colore e di calore, con cunicoli laterali dai quali uscivano le fiamme e al centro il nastro che scorreva lento pieno di mattoni come se fossero anime penitenti!
I mattoni uscivano poi dalla fornace e, ancora caldi che bruciavano, caricati a mani nude sui carri o sui primi camion e trasportati nei cantieri dove arrivavano quasi freddi.
In quegli anni l’attività edilizia era così frenetica che i mattoni non avevano neanche il tempo di raffreddarsi che erano già posti in opera!
La fabbricazione dei laterizi era in quel periodo già in gran parte meccanizzata, immaginatevi come doveva essere quel lavoro al tempo dei romani più di duemila anni fa!
Eppure una ventina di secoli fa a Leinì si fabbricavano già mattoni, ed era un enorme progresso vivere in case di mattoni rispetto alle fredde e fumose capanne fatte con fascine di paglia che s’incendiavano per un nonnulla!
In un recente lavoro della associazione La Barbacana su quel periodo si conclude che:
– il territorio di Leinì era già stabilmente abi­tato e con una certa organizzazione sociale a partire da alcuni decenni prima di Cristo;
– l’abitato del paese è sorto, con probabilità, nella zona di via Matteotti – vicolo Solferino, collegato anche con il Chiosso e la zona della parrocchia;
– le abitazioni sparse su tutto il territorio era­no collegate fra di loro da una fitta viabilità;
– la strada principale, via Volpiano – via Ca­selle Vecchia, era una importante arteria che collegava il ciriacese e le valli di Lanzo con Chivasso e il navigabile fiume Po;
– questo luogo, a partire dal 3° – 4° secolo d.C., aveva anche un nome: laetoni­cus o ledonico, dove abitavano i laeti.

Testamento del parroco Graglia di Leynì

di Toni Balbo

Alla già esaustiva descrizione dell’operato del parroco Cesare Graglia a Leinì, che ha esercitato dal 1834 al 1856, riportata nel testo “Leinì ieri e oggi” di don Giacomo Olivero, possiamo ora conoscere dal testamento le sue ultime volontà riguardanti la popolazione di Leinì.
Il suo successore don Matteo Ferrero redasse un estratto (particola) di tale testamento ad uso della parrocchia nel 1879.

Particola di testamento del fu sig.or teologo Cesare Graglia di Caselle ex-prevosto di Leynì.
27 settembre 1866

Art. 1°. Lego la somma di lire 250 ai poveri di Caselle e lire 250 ai poveri di Leynì da distribuirsi dai rispettivi parroci in ragione di lire 1 per ciascuna famiglia se composta di tre persone o meno e di lire 2 se in numero maggiore; questa distribuzione si farà nel trentesimo giorno dopo il mio decesso.
Art. 5°. Prelego al mio fratello Giacomo tutti i libri di mia spettanza in un colla stagera (scaffale) ed armadio in cui sono collocati esclusi unicamente quelli posti all’indice di Roma e quelli che trattano di teologia, sacra scrittura, storia ecclesiastica ed eloquenza sacra, quali vengono da me legati a favore della Parrocchia di Leynì, con che il prevosto della stessa s’incarichi di custodirli e conservarli; in caso contrario verranno dagli infranominati miei eredi rimessi al parroco di S. Giovanni Evangelista di questo luogo perché facciano parte della libreria propria della stessa parrocchiale e prego il mio cugino d. Giordano … in Veneria Reale a volere assumere l’incarico di separare tali libri e formarne una nota.
Art. 12°. Prelego pure al mio fratello Giacomo le cartelle del debito pubblico coi numeri 112143 – 1112144 – 1112145 – 1112146 – 1112147 della complessiva annua rendita di lire 205 acciò su tale reddito distribuisca in cadun anno lire 180 a numero 18 famiglie povere di Leynì in ragione di lire 10 per caduna famiglia. Tale distribuzione si dovrà eseguire a tenore della nota che prego il Sig. Prevosto di Leynì di volere in cadun anno compilare e sottoscrivere di concerto e col parere del membro più anziano della congregazione di carità di detto luogo e del sacerdote più provetto dello stesso luogo ivi residente almeno da 5 anni. Dette persone povere devono essere native di Leynì ed almeno da anni 5 nello stesso luogo residenti. Sarà considerato come povero colui che non ha il possesso di stabili di qualsiasi genere. Dovranno sempre essere preferite le persone di regolare condotta, quelle infermiccie, inabili al lavoro e specialmente le vedove con prole infantile.
Art. 17°. La tassa di successione e qualsiasi altra possa essere imposta sulle cartelle del debito pubblico, sia sul capitale che sulla rendita della medesima intendo e voglio debba essere prelevato dal totale ammontare delle somme legate.
Estratta la presente particola da copia autentica ad uso della Parrocchia.In fede. Leynì 30 luglio 1879.
Ferrero Prevosto