Embrici a Leinì

di Toni Balbo

Mi sono state recapitate alcune immagini di frammenti di laterizi che, a prima vista, possono essere attribuiti a tegole (embrici) romane. C’è anche l’immagine di un peso da telaio, che indica come in quell’insediamento si praticasse la tessitura. Niente paura, tranquilli, sono ritrovamenti comuni e normali, nessuna pompei leinicese (per ora).
Nelle nostre zone siamo abituati a considerare le coperture dei tetti con le tegole a forma di coppo.
I romani, invece, facevano le coperture con gli embrici e i coppi come nell’immagine.

coppi piemontesi
embrici e coppi romani


Le due forme sono di origine molto antica, praticamente da quando si scoprì la cottura dell’argilla o terracotta e in molte zone vengono usate ancora oggi.
La seconda copertura era però una prerogativa della cultura romana che arrivò nelle nostre zone alcuni decenni prima di Cristo.
Ora, che siano state ritrovate delle tegole romane sul territorio di Leinì, indica senza alcun dubbio che i romani abitarono queste zone (come è stato descritto più volte dalla nostra Associazione).

impronta di cane
incastro dell’embrice
peso da telaio tessile

Abbiamo anche ricostruito in modo particolareggiato la centuriazione del nostro Comune.
Questo recente ritrovamento conferma ancora una volta quanto già evidenziato da numerosi studiosi nel passato, ma che stenta ancora ad avere una risonanza più estesa. Peccato.
Uno dei reperti riporta impressa l’orma di un cane: questo dimostra che gli embrici formati in argilla fresca venivano fatti essiccare al sole, per diversi giorni, appoggiati per terra e qui inesorabilmente qualche animale li calpestava. Quando i laterizi erano asciutti, venivano cotti in fornace alla temperatura di circa 800 – 1000 gradi C.
A Leinì ricordo come la fornace Miglietti – Parigi fosse in attività ancora negli anni 1950/60 ed era situata in via Vauda prima della cascina Telegro ai confini con il Comune di Lombardore.
Oggi ci sono ancora alcune “bose”, laghetti formatisi a seguito dell’asportazione dell’argilla (tèra gras-sa), a testimonianza di quell’attività industriale.
L’argilla veniva scavata, caricata sui carri ribaltabili (tombarél) trainati da cavalli e muli, scaricata in grossi mucchi, inumidita, caricata nell’impastatrice meccanica, per renderla omogenea, estrusa in forma rettangolare, tagliata a misura di mattone con un filo di ferro, caricati a mano su carriole dagli operai che andavano a riporli in stretti e lunghi capanni a tre piani, riparati dal sole da coperture di canne palustri e lì lasciati ad asciugare prima della cottura. Un lavoraccio! Ma non era finita. I mattoni venivano tutti i giorni rigirati per una asciugatura uniforme. Dopo diversi giorni i mattoni asciutti venivano ripresi e sempre con le carriole portati all’imbocco della fornace, posti sul nastro trasportatore di rete di ferro che li portava all’interno della fornace.
Io ero un bambino e me la ricordo ancora oggi quella fornace! L’inferno che i catechisti dicevano che esistesse, io me l’immaginavo proprio così come vedevo la fornace: una grande cupola fatta di mattoni rossi di colore e di calore, con cunicoli laterali dai quali uscivano le fiamme e al centro il nastro che scorreva lento pieno di mattoni come se fossero anime penitenti!
I mattoni uscivano poi dalla fornace e, ancora caldi che bruciavano, caricati a mani nude sui carri o sui primi camion e trasportati nei cantieri dove arrivavano quasi freddi.
In quegli anni l’attività edilizia era così frenetica che i mattoni non avevano neanche il tempo di raffreddarsi che erano già posti in opera!
La fabbricazione dei laterizi era in quel periodo già in gran parte meccanizzata, immaginatevi come doveva essere quel lavoro al tempo dei romani più di duemila anni fa!
Eppure una ventina di secoli fa a Leinì si fabbricavano già mattoni, ed era un enorme progresso vivere in case di mattoni rispetto alle fredde e fumose capanne fatte con fascine di paglia che s’incendiavano per un nonnulla!
In un recente lavoro della associazione La Barbacana su quel periodo si conclude che:
– il territorio di Leinì era già stabilmente abi­tato e con una certa organizzazione sociale a partire da alcuni decenni prima di Cristo;
– l’abitato del paese è sorto, con probabilità, nella zona di via Matteotti – vicolo Solferino, collegato anche con il Chiosso e la zona della parrocchia;
– le abitazioni sparse su tutto il territorio era­no collegate fra di loro da una fitta viabilità;
– la strada principale, via Volpiano – via Ca­selle Vecchia, era una importante arteria che collegava il ciriacese e le valli di Lanzo con Chivasso e il navigabile fiume Po;
– questo luogo, a partire dal 3° – 4° secolo d.C., aveva anche un nome: laetoni­cus o ledonico, dove abitavano i laeti.

Testamento del parroco Graglia di Leynì

di Toni Balbo

Alla già esaustiva descrizione dell’operato del parroco Cesare Graglia a Leinì, che ha esercitato dal 1834 al 1856, riportata nel testo “Leinì ieri e oggi” di don Giacomo Olivero, possiamo ora conoscere dal testamento le sue ultime volontà riguardanti la popolazione di Leinì.
Il suo successore don Matteo Ferrero redasse un estratto (particola) di tale testamento ad uso della parrocchia nel 1879.

Particola di testamento del fu sig.or teologo Cesare Graglia di Caselle ex-prevosto di Leynì.
27 settembre 1866

Art. 1°. Lego la somma di lire 250 ai poveri di Caselle e lire 250 ai poveri di Leynì da distribuirsi dai rispettivi parroci in ragione di lire 1 per ciascuna famiglia se composta di tre persone o meno e di lire 2 se in numero maggiore; questa distribuzione si farà nel trentesimo giorno dopo il mio decesso.
Art. 5°. Prelego al mio fratello Giacomo tutti i libri di mia spettanza in un colla stagera (scaffale) ed armadio in cui sono collocati esclusi unicamente quelli posti all’indice di Roma e quelli che trattano di teologia, sacra scrittura, storia ecclesiastica ed eloquenza sacra, quali vengono da me legati a favore della Parrocchia di Leynì, con che il prevosto della stessa s’incarichi di custodirli e conservarli; in caso contrario verranno dagli infranominati miei eredi rimessi al parroco di S. Giovanni Evangelista di questo luogo perché facciano parte della libreria propria della stessa parrocchiale e prego il mio cugino d. Giordano … in Veneria Reale a volere assumere l’incarico di separare tali libri e formarne una nota.
Art. 12°. Prelego pure al mio fratello Giacomo le cartelle del debito pubblico coi numeri 112143 – 1112144 – 1112145 – 1112146 – 1112147 della complessiva annua rendita di lire 205 acciò su tale reddito distribuisca in cadun anno lire 180 a numero 18 famiglie povere di Leynì in ragione di lire 10 per caduna famiglia. Tale distribuzione si dovrà eseguire a tenore della nota che prego il Sig. Prevosto di Leynì di volere in cadun anno compilare e sottoscrivere di concerto e col parere del membro più anziano della congregazione di carità di detto luogo e del sacerdote più provetto dello stesso luogo ivi residente almeno da 5 anni. Dette persone povere devono essere native di Leynì ed almeno da anni 5 nello stesso luogo residenti. Sarà considerato come povero colui che non ha il possesso di stabili di qualsiasi genere. Dovranno sempre essere preferite le persone di regolare condotta, quelle infermiccie, inabili al lavoro e specialmente le vedove con prole infantile.
Art. 17°. La tassa di successione e qualsiasi altra possa essere imposta sulle cartelle del debito pubblico, sia sul capitale che sulla rendita della medesima intendo e voglio debba essere prelevato dal totale ammontare delle somme legate.
Estratta la presente particola da copia autentica ad uso della Parrocchia.In fede. Leynì 30 luglio 1879.
Ferrero Prevosto

Le ombre del passato di un leinicese

di Toni Balbo

È da poco trascorsa la Giornata della Memoria della quale abbiamo letto sui giornali le commemorazioni ed i ricordi di quel triste periodo.
Lo storico Gianni Oliva scrive su La Stampa del 27 gennaio: “Il Giorno della Memoria è stato voluto per ricordare le vittime della Shoah, ma anche i … 650 mila soldati internati. La vicenda di questi ultimi è a torto la meno conosciuta. Si tratta dei giovani sotto le armi delle classi tra il 1911 e il 1923 che, al momento dell’armistizio, si rifiutano di combattere per la Germania e vengono fatti prigionieri dalla Wehrmacht in Italia, nei Balcani, in Grecia, nelle isole egee e deportati nei campi in Germania. Dal punto di vista tedesco appartengono a un Paese «traditore», uscito unilateralmente dall’alleanza per accordarsi con il nemico angloamericano: per loro viene coniato lo status di «internati militari», che li differenzia dai prigionieri di guerra e li sottrae alle garanzie internazionali previste dalla Convenzione di Ginevra. Rinchiusi in Lager dove le condizioni di vita sono estreme, i soldati sono avviati al lavoro forzato, impiegati nell’industria bellica, nello sgombero delle macerie nelle città bombardate, nei lavori agricoli, forestali, minerari”.

Anche Leinì ha le sue storie da raccontare, una delle quali porta il nome di Cerutti Gaetano.
Conosciuto dai leinicesi come “Tano ‘dla ressia” (Tano della segheria) era un alpino che al momento dell’armistizio dell’8 settembre del 1943 si trovava a Marina di Massa Carrara.
Ha scritto la sua storia sul retro del coperchio della piccola valigetta di legno che conteneva i pochi effetti personali.
Questa la trascrizione fedele dei suoi ricordi:
CERUTTI GAETANO
Ricordo delle mie tristezze
Anno 1943 – 8 – 9 Marina di Massa Carrara Armistizio
9 – 9 Prigioniero – il 10 mi libero – Ripescato ad Alessandria il 10 sera – il 11 partenza per la Germania – il 13 ultimo saluto in terra Italiana. Il giorno 16 si arriva al primo campo di concentramento – THORN – CZESTOCHOWA – CHOLM – BIALA PODLASKA tutti questi campi in Polonia in seguito in Germania BREMENVORDE – HAMBURG – Liberato il 3 – 5 – 45 dagli Alleati “Inglesi”
Dopo circa tre mesi si a finalmente il ritorno
Il 28 – 7 partenza – il 2 – 8 si arriva in terra Italiana
Il 6 – 8 – 45 il mio ritorno in famiglia – è finita la vita schifosa. “Viva la borghesia”
Ricordo di Paesani durante le mie tragedie: Garino Francesco – Corgiat Domenico – Garino Mario – Verderone Giuseppe – Cristaudo Sebastiano
KR – GFR – LAGER
THORN
NR. 27081
STALAG.XX.A.

La valigetta di Cerutti Gaetano

L’Associazione Nazionale Ex Internati ha realizzato un quadro commemorativo, conservato nella pinacoteca del santuario della Madonna delle Grazie di Leinì, a ricordo di quella terribile esperienza.
Un’altra storia avrebbe potuto raccontarcela Alovisio Amedeo, anche lui rappresentato nel quadro della Madonnina. Era soprannominato Patòschi, una storpiatura ironica del campo dove era stato internato (forse Podlaska).

Il quadro degli internati di Leinì

La “buseca” di Leinì

di Toni Balbo

Ci stiamo avvicinando ai mesi della stagione invernale e mi viene in mente come in passato anche la cucina si adattasse ai prodotti dell’orto presenti in quel periodo.
Oggi si è persa la stagionalità: i prodotti di stagione ci sono tutto l’anno, per cui si possono cucinare tutti i prodotti dell’anno in qualsiasi periodo dell’anno. Dal punto di vista culinario non ci sono più le stagioni (figuriamoci le mezze stagioni!).
Negli anni cinquanta del secolo scorso, in questo periodo, irrompevano sulla tavola i cavoli e cavolfiori, le castagne, le rape (che odiavo), i finocchi, i radicchi, le patate, le zucche, ecc.
Il piatto che non mancava mai era il minestrone, fatto appunto con le verdure di stagione e con quelle conservate come i fagioli, al quale nei giorni di festa si aggiungeva una buona dose di trippa bovina tagliata a pezzettini: era il piatto tipico delle nostre zone chiamato “buseca”.
Piatto povero, tipico delle comunità rurali, considerato anche il piatto “del povero”, il piatto di minestra che non si rifiutava a nessuno.
Ed è proprio per ricordare questa simbologia che, in occasione del carnevale, il Gruppo Alpini di Leinì, guidato da Giuseppe Caviglietto, organizzava la distribuzione gratuita della buseca alla popolazione leinicese.
Grazie alla sig.ra Vanna vi propongo tre immagini di quella benemerita iniziativa svoltasi il 12 febbraio del 1956.

Il momento della preparazione della buseca. Al centro Giuseppe Caviglietto
Ci si prepara alla distribuzione. La buseca veniva distribuita nei “barachin”, contenitori di latta tipo secchiello costruiti per l’occasione dall’officina Caviglietto. Il cartello indica che la cucina è alimentata con il Liquigas.
Una panoramica della distribuzione sotto il porticato della piazza. Il cartello fra lo scarpone ed il cappello alpino recita: “la büseca benefica ‘d j’Alpini – carlevè 1956
”.

La Famija Leiniceisa

di Toni Balbo

La parrocchia di Leinì pubblica periodicamente un notiziario intitolato Leinì Insieme, arrivato al 36° anno, che riporta le notizie della comunità parrocchiale, gli avvenimenti, gli avvisi, gli orari delle celebrazioni, i commenti al Vangelo, i defunti, ecc.
È una consuetudine che si tramanda da tempo immemore, una volta i lettori lo chiamavano il bollettino parrocchiale, organo ufficiale della comunità cristiana.
Nel giugno del 1968 nasceva il notiziario intitolato “La Famija Leiniceisa” e grazie a Erminia Camilla in Navilli che ne ha diligentemente conservato i numeri del 1969, abbiamo la possibilità di ricordarlo.
La Famija Leiniceisa era una associazione che si autodefiniva Club assistenziale, culturale, artistico e ricreativo. Le quote associative erano di L. 500 per gli ordinari, L. 1.000 per i sostenitori e L. 5.000 per i benemeriti.
Nel 69 sono stati redatti 5 numeri, fra le notizie più importanti dell’anno primeggiano il 50° anniversario della fondazione del Circolo Fides, il 25° anno di sacerdozio del prevosto don Giacomo Olivero ed il favoloso Carnevale del 1969.

La testata del notiziario parrocchiale

Di bollettini parrocchiali di Leinì se ne sono conservati anche di più antichi: L’Aratro del 1945, ciclostilato in proprio, e Vita Cristiana del 1934 che veniva stampato dalla “Società della buona stampa” di Torino.

Le campane della Madonnina di Leinì

di Christian Chiatello

Nell’elegante campanile del Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Leinì, che i leinicesi chiamano affettuosamente “la Madonnina”, ci sono due campane.
Una campana piccola si affaccia verso via Gobetti ed una campana più grande verso le scuole elementari Anna Frank.
La prima di solito viene suonata, la domenica alle 7,45, per chiamare i fedeli alla funzione religiosa delle 8.
Ben visibile la scritta COMPAGNIA DELLA BEATA VERGINE DELLE GRAZIE DI LEINI.
È inciso inoltre il nome di BARTOLOMEO DEPAOLI E CONSORTE MARIA, fatto che sta a dimostrare che la campana è stata donata da questa coppia di coniugi al Santuario. Non è riportata nessuna data.
Da un lato è raffigurata l’immagine del sordomuto Regina inginocchiato dinnanzi alla Madonna, mentre sul lato opposto è rappresentata la scena della crocifissione di Gesù Cristo.
Ben visibile è anche il nome della fonderia: ACHILLE MAZZOLA FU LUIGI VALDUGGIA, ditta attiva dal 1875 al 1990.
La campana grande, invece, è quella che scandisce le ore. Su di essa è ben visibile la data: 1827.
È un dettaglio storicamente importante, perché dimostra che la campana è più vecchia del campanile che fu costruito nel 1845.
Da notizie d’archivio non è mai stata rifusa, quindi è lì da sempre nella sua originalità. 
Ciò che più mi affascina è il mistero della sua provenienza: dove ha suonato nei 18 anni prima della costruzione del campanile?
Magari, per mancanza di fondi, dopo la spesa di costruzione del campanile, piuttosto che fonderne una nuova si è preferito recuperarne una già esistente a costo minore … chissà. 
Purtroppo sono poco leggibili le scritte ancora visibili su di essa e comunque non danno indizi sulla sua provenienza.
Quando sentirete rintoccare le ore dal campanile della Madonnina, pensate che quel suono ha ben 193 anni.

La campana piccola
La campana grande

Architettura minore a Leinì

di Toni Balbo

Che sia un perito agrario ad occuparsi di architettura, seppur minore, lo trovo perlomeno singolare, mi sono imbattuto però in stalle di edifici più o meno antichi di Leinì che con l’agricoltura e l’allevamento c’entrano eccome.
Sono manufatti che risalgono probabilmente al 1700 – 1800 in edifici tipici di quell’epoca composti dal cosiddetto fabbricato civile con annesso fabbricato rurale. Di solito appartenevano a famiglie benestanti che vivevano delle rendite che il fondo agricolo condotto da mezzadri forniva loro.
A Leinì erano decine le grandi cascine con tale impostazione gestionale come ad esempio la Becca, lo Strello, il Trucco, la Musica, San Lorenzo, ecc.
Ma veniamo alle costruzioni: ne ho trovate un paio che hanno delle stalle con il soffitto fatto da grosse travi solitamente di rovere, ma anche di larice, dal diametro di una trentina di centimetri, distanziate tra loro di circa 50 – 60 centimetri, raccordate da un voltino di mattoni. La lunghezza delle travi è di almeno sei metri, per cui le stalle risultano larghe e spaziose. Tale struttura, che appare sovradimensionata, era necessaria perché doveva sorreggere il fienile soprastante.
Questo tipo di costruzione comporta un grande dispendio di legname, si pensi che dovevano essere abbattute 18 piante di alto fusto per fare 10 metri di stalla, per il ricovero di sedici – diciotto bovini adulti!

Il soffitto delle stalle antiche

Nelle cascine più piccole i soffitti delle stalle, così come quelli delle stanze, erano fatti di mattoni disposti a vela o a padiglione che non consentivano però la realizzazione di grandi spazi.
L’introduzione delle putrelle in ferro a doppio T, con le quali sono costruite le stalle che troviamo ancora oggi nelle cascine, sono datate dal 1850 in poi. Sono sempre raccordate con un voltino di mattoni, ma sono distanziate di circa un metro.
Proviamo a fare qualche congettura. In quello stesso periodo in Italia si sviluppa la rete ferroviaria. Per le traversine dei binari dei treni viene usato il legno di essenze molto dure come il rovere, si dice che siano state disboscate intere regioni italiane per tale uso.
Intanto la siderurgia compie passi da gigante: le rotaie dei treni sono fatte di ferro dolce a doppio T, fare le putrelle per le costruzioni a questo punto diventa uno scherzo.
La forte richiesta di legname per le traversine ne fa aumentare il prezzo e comincia ad essere conveniente usare le putrelle di ferro che hanno anche altri vantaggi costruttivi.
E fu così che l’avvento del treno ha fatto costruire le stalle in modo diverso!

La storia di Leinì nella colonna del tempo

di Toni Balbo

Con la speranza che possa rivelarsi utile, ho elaborato una colonna del tempo della storia di Leinì: consiste in una presentazione interattiva attraverso la proiezione di immagini che possono essere commentate a voce dal relatore.
Potrebbe essere utile a livello didattico per illustrare agli scolari la storia del luogo in cui vivono, oppure per i nuovi concittadini, o per chi voglia inquadrare nel tempo fatti che già conosce.
La presentazione segue uno schema libero, lasciando la possibilità di fare salti nel tempo e confrontare epoche diverse. Infatti la colonna serve da riferimento temporale, le caselle colorate di verde sulla destra aprono immagini o schede informative relative all’avvenimento da commentare a voce. A sinistra alcuni riferimenti alla storia “classica” e la scala degli anni. I colori della colonna indicano approssimativamente i grandi periodi storici.
Naturalmente, per provare la presentazione ad un uditorio occorrerà attendere la fine della buriana pandemica.

I banchi della parrocchia di Leinì

di Toni Balbo

Anche i banchi della parrocchia possono raccontare delle storie interessanti.
I banchi della navata centrale sono stati tutti sostituiti un paio di decenni fa con nuovi anonimi manufatti, mentre nelle due navate laterali si possono ancora vedere dei piccoli banchi donati dai leinicesi che hanno voluto far sapere, con targhette e scritte, i nomi dei dedicanti. Alcuni sono di ottima fattura, altri più semplici, ma da tutti traspare la volontà di lasciare una traccia della propria fede.

Ci sono poi i ricordi personali: due grandi banchi, posti in quarta o quinta posizione nella navata centrale, uno a destra nella parte riservata agli uomini e uno a sinistra riservata alle donne. Avevano le portine di accesso, lo stemma del Comune intarsiato sullo schienale e il foro per inserire il gonfalone comunale.
Erano i banchi, di sontuosa fattura, riservati agli amministratori comunali, i cui serramenti volevano rimarcare la distinzione fra le “autorità” ed il “popolino”. I banchi sono stati poi smantellati e posti ai lati del presbiterio. Con un montaggio fotografico ne abbiamo ricostruito le sembianze.

Ricostruzione del banco del Comune (di Alessandro Balbo)

Recentemente mi è stata segnalata la presenza di un vecchio banco, ormai riposto nei magazzini, sul quale le tarme hanno lungamente “banchettato”. Si tratta di un banco semplice e povero, come lo dovevano essere tutti in passato, ma con una scritta che lo identifica sia nella funzione che nella datazione: LA MERIE (pronuncia: la merì).
La scritta non è proprio esatta, ma in quel tempo non tutti conoscevano la corretta grafia francese: avrebbero dovuto scrivere LA MAIRIE (pronuncia: la merì), il risultato nella pronuncia è il medesimo.

La mairie è il municipio, per cui il banco era riservato alle autorità municipali e la sua datazione è da ritenersi intorno al 1800. In quel tempo eravamo sotto la dominazione francese e considerando il particolare momento storico, la presenza del sindaco alle funzioni religiose poteva anche intendersi come un ostentato controllo diretto delle omelie degli officianti, affinché non criticassero il nuovo regime.
Abbiamo notizie di quel periodo dalle lettere che Padre Francesco Niccolò Ferrero inviava alla Curia arcivescovile di Torino sulla situazione dei sacerdoti di Leinì, divisi, così come la comunità, fra “realisti” (leali al re) e “giacobini” (sostenitori della repubblica).
Nel 1809 le maire – il sindaco – di Leynì era l’avvocato Larue e il sig.r Bertetti era l’aggiunto.
A Leinì erano presenti almeno sei sacerdoti: don Francesco Bernardi, parroco, don Cesare Calvetti, vice parroco, Padre Francesco Niccolò Ferrero, insegnante e informatore dell’arcivescovo Giacinto Vincenzo della Torre, Padre Capirone, Don Perino, Don Clemente Alovisio e suo fratello anch’esso sacerdote.
Un grazie a don Pier, a Gianni e a Vittorino.

Società M. I. Leynicese fondata nel 1907

di Toni Balbo

Nel giorno di Natale dello scorso anno, un nostro affezionato lettore si è rivolto alla nostra Associazione, affinché lo consigliassimo circa la destinazione di un caro ricordo che la sua nonna Secondina Balbo ha gelosamente custodito per molti decenni.
Si tratta di una bellissima bandiera, ricamata su vellutino porpora, alla cui vista, confesso, mi sono emozionato, sia per la splendida fattura e sia per il valore storico che poteva nascondere.
Il nostro lettore mi segnalava che tale reperto aveva a che fare, come gli aveva raccontato la nonna, con il fuoco, ma non sapeva altro.
Le dimensioni del drappo cm. 110 per 130 e l’asta di cm. 270 rivestita di velluto chiodato sono considerevoli.
Lo stemma di Leinì sormontato dal cartiglio con la scritta “In Omnibus Unio”, circondato da volute di fiori e sulla parte posteriore la bandiera italiana con la scritta “Società M.I. Leynicese fondata nel 1907”, lascia stupiti.
Cosa vuole dire l’acronimo M.I.? Inizio la ricerca in rete e negli archivi. Mi arrovello per un’intera giornata, ma a tarda sera trovo le risposte!
Si tratta della bandiera della “Mutua (contro gli) Incendi” citata nel verbale della Società di Mutuo Soccorso di Leinì del 7 luglio 1907: “Successivamente si diede lettura di una lettera della Società contro i danni d’incendio, denominata la Leynicese, a mezzo della quale fa invito a questo Sodalizio onde voglia parteciparvi a quell’istituzione come socio e come abbonato, chiedendo il valido appoggio sia morale che materiale a quella nuova istituzione.
Ad un tale riguardo prendono parte alla discussione il consigliere Marchetti Bartolomeo, il revisore Ferrero Andrea ed il vice presidente Favero Luigi e dopo lo scambiarsi vicendevolmente nella parola in merito chi in un senso e chi in un altro, si addivenne alla convenienza di aderire a tale invito approvando cioè: che questa Società sia iscritta come socio in quella e non appena avrà termine l’abbonamento d’assicurazioni incendi in corso, faccia il nuovo abbonamento nella Leynicese”.
In quel tempo la polizza assicurativa contro gli incendi si chiamava “abbonamento del fuoco”.
La Società ebbe vita breve, una trentina d’anni. In quel periodo gli incendi erano purtroppo frequenti e la raccolta delle quote non consentiva la necessaria sostenibilità, finché nel verbale della Società di Mutuo Soccorso del 3 maggio del 1936 viene riportato: “Successivamente il Presidente fa presente ai convenuti di avere ricevuto la somma di Lit 50,00 dalla cessata Società di assicurazione contro i danni d’incendio la “Leynicese” in liquidazione, quale premio di fiducia. Tale somma venne ritirata dal cassiere in seduta stante. L’adunanza accogliendo il desiderio del Presidente approva che tale somma sia devoluta a favore del Santuario della Madonna delle Grazie di questo comune, per la costruzione di un alloggio destinato al cappellano che dovrà funzionare nel detto santuario”.
Termina così la breve vita di una Società benemerita sorta per sopperire ai danni dagli incendi, spesso fatali per la sopravvivenza delle cascine e delle case dei leinicesi.

La bandiera della Mutua Incendi sarà custodita dalla Società Agricola Operaia di Mutuo Soccorso di Leinì, come è naturale che sia, insieme alla propria bandiera storica (molto simile) e alla targa della Mutua dei Coltivatori Diretti, ritrovata recentemente, che, insieme, continuano a testimoniare lo spirito di aiuto mutualistico che ha sempre animato i leinicesi e che si protrae ormai da circa centosettantanni!